50 anni di bottega. Un percorso appassionato nella storia della ceramica italiana.

“L’artista è nulla senza il talento, ma il talento è nulla senza il lavoro.”
Émile Zola


*Una doverosa premessa:
Il giorno in cui abbiamo intervistato Mirta, non c’era ancora stata l’alluvione in Emilia Romagna. A Faenza, il Lamone non aveva rotto i suoi argini e il fango non aveva ancora sommerso tutto devastando strade, case, botteghe. Questa volta l’argilla ha tolto, ha costretto le mani che per anni l’hanno lavorata con maestria a pulire e lavare ogni cosa. Ci auguriamo che Faenza possa riemergere, che le mani dei faentini possano tornare presto a creare meraviglie.


Quando squilla il telefono della bottega Morigi, è una delle girls a rispondere. La voce di Mirta arriva qualche istante dopo, con il suo incedere lento e cadenzato, di chi pensa prima di parlare, prima di far fluire il fiume in piena di pensieri che si annidano nella sua mente.
Se non siete mai stati su una barca, sappiate che potrà venirvi il mal di mare, perché siamo di fronte a una traversata oceanica, stiamo per ripercorrere insieme i 50 anni della bottega di Mirta Morigi.
L’inizio del suo viaggio risale al giorno in cui Mirta, di ritorno dalla prima volta che era andata a scuola – da notare, aveva 11 anni – si era accostata all’orecchio di sua madre e aveva sussurrato: “Mamma, farò la ceramista.” Lei una piccola bambina di campagna, guidata da una maestra che aveva saputo indirizzarla verso la giusta strada, a intuirne la potenzialità prima che venisse espressa.
Mirta ha frequentato così il glorioso istituto d’arte G. Ballardini di Faenza, la scuola di ceramica in cui i ragazzini senza soffrire, senza critica e senza giudizio riuscivano a imparare a muoversi nel mondo della ceramica, un percorso di formazione incredibile per chi aveva la passione della ceramica e non solo. A Faenza venivano studenti da tutto il mondo perché quello era il luogo in cui si diventava esperti. Con le dita di una sola mano potevi contare le persone che, finita la scuola, avevano deciso di aprire bottega. Mirta era una di queste. Una ceramista che ha scelto un lavoro “che non produce noia, che non ti stufa, e che ti fa dimenticare di tutto il mondo che resta fuori dalla porta della tua bottega.”
Nel suo cammino Mirta, ha percorso la strada della ceramica italiana faentina.
Ha incominciato con la tecnica del graffito, una tipologia primigenia impiegata quando non c’erano smalti importanti e colori come il cobalto. Una tipologia tipica per le colorazioni di ferro e di rame (i gialli dello zucchero bruciato o i verdi). Quando pensiamo alla storia della ceramica sappiamo che ogni zona del mondo ha sviluppato delle differenti tipologie di lavorazione sulla base delle materie prime reperibili nel luogo, il graffito era la tecnica tipica del mediterraneo.
A 21 anni Mirta inizia a fare della maiolica, procede per tentativi e smalta di bianco. La sua idea iniziale era di realizzare solo cose moderne, smalti spruzzati, che però non avevano riscontrato un grande successo nel pubblico. Dopo la maiolica è stato il tempo delle campiture più piene e ha cercato di trovare la sua strada in disegni non tradizionali. Poi ha abbracciato il tradizionale ma prendendone solo alcune parti, un periodo fondamentale per la sua bottega perché l’ha resa riconoscibile e autonoma. Mirta ha sempre ricercato quello che la terra le suggeriva come forma, la base di partenza per le deformazioni che tanto ama, le deformazioni che rendono gli oggetti unici e riconoscibili. Se si guardano nella sua bottega le sue basi si capisce benissimo che sono oggetti unici prima ancora di essere decorati, smaltati e cotti.
Quando si è scocciata di dipingere voleva creare qualcosa di nuovo e raggiungere un livello più alto. Ha cominciato partendo dalle sue origini, da una bambina di campagna, con la tasca piena di lucertole. Ha dato vita agli animali che conosceva meglio, ripescandoli dalla sua mente e riproponendo una sua elaborazione interna. Ed ecco la nascita delle rane che sembrano ragni con lunghe zampe esili, camaleonti con code mastodontiche, raganelle e lucertole che scalano forme con la fierezza di creature preistoriche. Per arrivare al prodotto finale, ha dovuto modellare, tentare, replicare, dipingere, creare, infinite volte. Perché la progettazione sulla carta è indispensabile ma è il mestiere, la maestria, a concederti dei regali che nella progettazione non puoi neanche immaginare. Nei 50 anni di bottega di Mirta il suo percorso non è stato un processo mentale consapevole. È capitato. E quando ne parliamo con lei ci dice che spesso fa una una cosa, crede di aver avuto una bella idea e poi girovagando nella sua bottega la ritrova in un bozzetto di 15 anni prima.
Un embrione impiantato che ha aspettato di diventare maturo.
Mirta crede proprio che la cifra stilistica più importante per ogni artista sia la riconoscibilità, il passaggio obbligato attraverso il quale qualsiasi declinazione si crei, si vede la mano dell’artista che l’ha creato.
Sono l’esperienza e il tempo ciò che permettono di imparare a pensare, di inventare qualcosa attraverso gli elementi e le conoscenze che si hanno acquisito. Quello che avviene nella sua testa è un melting pot dal quale inizi a pescare delle idee che col tempo sai capire se siano percorribili. La chiave di tutto sta nella pazienza: nessuna idea è pronta subito. Qualsiasi decoro nuovo necessita di un’ispirazione, bisogna perseguire un’idea, cambiarla, colorarla diversamente, modificare il processo creativo e adattarlo all’idea stessa. Il lavoro di bottega è un lavoro di tentativi, in cui qualsiasi decoro per essere accettato e prendere forma e poter essere venduto, ci mette almeno un anno. La gente che non pratica l’arte pensa che sia un dono divino, per Mirta invece è il tempo che tu passi a pensarci, il tempo che tu dedichi a quella parte che è la tua parte creativa. Ma ciò che sta alla base di tutto è il mestiere, si deve avere un mestiere, si possono smontare le regole solo quando si conoscono alla perfezione e quindi un atto creativo ti arriva solo se tu hai la padronanza delle regole del gioco. E poi bisogna sapersi fare aiutare. La bottega di Mirta è una bottega rinascimentale, una bottega di donne, di cui lei è il capitano, perché tutti i pezzi che in questi 50 anni sono usciti dalla sua bottega, sono stati tutti toccati da lei. La bottega per lei è un luogo in cui ognuno
può trovare la sua qualità. Le sue ragazze, decorano, smaltano, tengono conto degli ordini. Ognuno ha un suo campo, un suo talento che offre alla bottega. Quanto al talento di Mirta lei è colei che vive in sintonia con la materia, le sue mani lo strumento in grado di ascoltare ciò che la terra le dice.
La passione di Mirta è il tornio, ma con estrema umiltà ci rivela che non è mai diventata una torniante brava ed esperta. Con la sua passione però ha seguito tanti tornianti, il giusto numero per capire quale incredibile mestiere sia. A Faenza il torniante è colui che fa la partenza, colui che pratica un mestiere ingrato. In due anni senza alzare la testa dal tuo tornio puoi essere modesto, in dieci anni diventi bravo. È per questo che i tornianti in Italia sono diventati rarissimi, perché è difficile trovare giovani che abbiano voglia di costruire il loro mestiere, giorno dopo giorno, con il capo chino e le mani nella terra. A Faenza oggi si è salvato un solo studio di un torniante, dove si cerca di trasmettere questo mestiere di fatica e dedizione.
Ma il mestiere del torniante è un mestiere popolare, che viene difficilmente sposato dalle donne, perché è difficile e faticoso per una donna tirare su e riempire un piazzale di vasi in una giornata. E il tempo è denaro.
Se guardi Mirta capisci che è solo grazie alla sua forza di volontà che sia riuscita a lavorare sette, otto chilogrammi di terra, a sbatterla e tirarla su, in una danza fisica che ha portato alla nascita dei suoi vasi twister.
I vasi twister sono nati dall’idea di renderli unici. É Sergio Soli, il torniante della bottega di Mirta, colui che è stato il suo braccio destro, un uomo di 86 anni, che da un anno ha smesso di lavorare. In un lavoro a quattro mani lui le tirava su i cilindri, e lei li twistava, in una danza e sinergia di movimenti, i cilindri acquisivano il loro carattere distintivo, la loro unicità.
E su ogni 20 vasi fatti, Mirta ci rivela che solo uno è bellissimo. Perché il lavoro di bottega è un lavoro di resistenza e i vasi Twister sono il risultato di una sinergia creativa. Sono vasi liberi, geniali, difficilissimi da realizzare perché se non sono tirati su tutti dal fondo alla fine con lo stesso spessore, nell’istante in cui vai a deformare il vaso crolla e collassa su se stesso. Le deformazioni di questi vasi nascono da una perfezione formale.
Vi avevamo avvisato che sarebbe stata una traversata oceanica. Quello che abbiamo realizzato appena la nostra telefonata con Mirta è finita è che non potremmo immaginarla in un posto diverso. La vediamo ogni mattina entrare nella sua bottega e immergersene a tal punto da non ricordare cosa ci sia fuori dalla sua porta. Entrare nel suo luogo magico costellato di passione. La vediamo bambina accostarsi all’orecchio di sua madre e sussurrare: “Mamma, farò la ceramista.”


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